dal GUERIN SPORTIVO, a. LXXVI, n.33, 17-23/8/1988 Adriatic gigolò di GIAN LUCA VICINI Non avevo mai parlato con Giovanni Galeone ed ero pronto ad una intervista di stampo molto informale: invece mi sono trovato al centro di un colloquio straordinariamente brillante. Non si può certo conoscere una persona dopo una sola chiacchierata, ma c'è una cosa che mi pare di aver capito del tecnico pescarese: gli piace vivere con entusiasmo, sfuggendo con ogni mezzo la monotonia e la banalità. E' quasi «offensivo» nei suoi confronti iniziare con una domanda tanto banale come «dove cercherà di arrivare il suo Pescara targato Brasile». Ma l'abilità di un intervistato, a volte, è commisurata all'intelligenza con cui sa replicare all'ovvietà. «Quest'anno siamo giunti ad una svolta: per la prima volta, in un campionato di serie A, invece di vendere ha comprato: di conseguenza il nostro obiettivo sarà migliorare il rendimento della scorsa stagione. Con Edmar e Tita, giocatori che avevo chiesto io stesso, abbiamo incrementato sensibilmente il tasso tecnico della squadra: con loro punto a mantenere il modulo di gioco dello scorso anno. E per questo ho voluto due attaccanti! Adotteremo ancora la stessa manovra sbarazzina, ma con meno "allegria" in difesa, visto che in serie A gli errori si pagano. Ci sono sette formazioni più forti della nostra, siamo al livello del Verona e della Fiorentina. D'altra parte non dobbiamo crederci già salvi, visto che nella bagarre della retrocessione saranno coinvolte almeno otto o nove squadre: ci sarà veramente da lottare». - La via del successo passa attraverso il Brasile? «Non credo che il calcio laggiù sia in crisi, il campionato brasiliano continua a sfornare nuovi talenti e questo è dimostrato dal fatto che moltissime società italiane hanno "pescato" lì anche quest'anno. Per quanto riguarda il Pescara, avevamo bisogno di raggiungere maggior consistenza a livello tecnico nella zona nevralgica del campo, e sotto questo aspetto non credo si possa discutere l'abilità dei giocatori brasiliani. Ho seguito a lungo Edmar e Tita, due giocatori non più giovanissimi ma talmente esperti da poter prendere per mano la squadra e guidarla nel migliore dei modi. Lo penso e ovviamente, lo...spero». - La sua squadra ha partecipato alla «Pescara Cup» accanto a formazioni di prestigio internazionali come Roma, Nottingham e Colonia. E' questa la strada migliore in fase di preparazione? O non sarebbe meglio affrontare avversarie militanti in serie minori, meno ostiche dal punto di vista dell'impegno? «Talvolta bisogna arrendersi alla ragion di stato. Incontri con grossi avversari richiamano il pubblico, la società può incrementare gli abbonamenti mettendo in mostra il proprio patrimonio calciatori. Del resto, è meglio che vedere in televisione...Milan-Seregno! Mancano ancora due mesi all'inizio del campionato, quanto facciamo ora è calibrato sulla lunga stagione che ci aspetta: queste amichevoli vanno prese con lo spirito giusto e con il beneficio d'inventario da parte di tutti: squadre, giornalisti e tifosi». - Dialogando con lei è immancabile il quesito: uomo o zona? «Non dico che con la zona si vince e con la "uomo" no, ma nel modulo a zona vedo più vantaggi che controindicazioni. Pur tenendo d'occhio l'avversario - e questo voglio precisarlo, visto che nel gioco a zona non esistono le marcature - non ci sono accoppiamenti fissi e questo favorisce chi occupa certi ruoli più delicati. Vi immaginate un mediano che in un campionato deve marcare due volte Maradona, Gullit, Giannini, Dossena e così via? Ne esce distrutto, specie se gioca in una squadra provinciale dove è più difficile far bella figura. Inoltre il gioco a zona a me sembra mentalmente più vincente e lo schieramento in campo è più equilibrato. Non credo comunque che il modulo di gioco dipenda dagli elementi che si hanno a disposizione, è un'affermazione che talvolta sento anche tra i colleghi: non sono d'accordo. Un giocatore deve sapersi inserire in ogni assetto tattico. Certo, questo insegnamento è compito degli istruttori a livello giovanile che hanno l'obbligo di abituare il ragazzo ad un unico schema di gioco».
Ho letto in un'intervista che è sua intenzione allenare ancora un paio d'anni per poi dedicarsi ad altre attività, tra cui il giornalismo. Perché vuole lasciare la panchina? «Non ho fatto in tempo a pronunciare questa battuta che il vostro collega Pistilli mi ha subito preso per i fondelli. Credo che in qualunque professione la componente essenziale sia l'entusiasmo, ma ora ad allenare non mi diverto più, potrei smettere oggi stesso: sì, proprio in questo momento. Ho appagato la mia curiosità come allenatore: potrei proseguire solo per avere un'esperienza in una grande squadra e vedere se so vincere qualcosa. Poi basta, potrei chiudere. Non ne faccio una questione di soldi: certo è bello brindare a champagne, ma si può vivere anche bevendo acqua brillante. Quanto alla "scelta" del giornalismo, deriva dalla considerazione che ho per la vostra categoria. Mi piacerebbe poter continuare a dire ciò che penso, visto che tanto si decanta la vostra libertà di espressione ed opinione. E' stata un'idea di Gianni Mura di "Repubblica" e non dimentico le offerte di collaborazione ricevute da diversi dei nostri grandi quotidiani in occasione degli Europei disputati in Germania». - Destino che accomuna mio padre a lei è quello di trovare i propri cognomi al centro di giochi di parole sui titoli dei giornali (pensi solo...all'intestazione di questa mia rubrica - "Vicini di panca", ndr). Trova tutto questo simpatico o fastidioso? «Per tutto l'inverno quando vincevo si parlava di "Galeone a gonfie vele" e quando perdevo di "Galeone affondato". No, non ne provavo fastidio, ma ormai si era giunti ad una banalità enorme. Titolisti, fatemi un favore: se volete giocare con il mio cognome trovate qualcosa di nuovo, che ne so, anagrammatelo!».
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